“Me, myself and I”: la depressione in un pronome

– § – “ME, MYSELF AND I”: LA DEPRESSIONE IN UN PRONOME – § –

Nonostante sia ben noto che l’uso del pronome personale “io” (o “me”) costituisca una non idonea forma di dialogo di tipo inclusivo, in moltissimi non riescono a “controllarne” l’uso in quanto, come in una malattia, o la sicura per controllarla o la malattia controlla il nostro corpo, con le relative conseguenze. Ovvio che occorre distinguere contesto e contenuto, ma al senso generale si può dare conferma

A quanto pare, da una recente ricerca, più è utilizzato un certo tipo di pronome e più si è inclini ad avere “problemi interpersonali e dell’umore”. Quel pronome è la “famosa prima persona singolare”, il noto “Io”. In passato la dottrina ci diceva che un tale uso che era frutto di abitudini, spesso familiari. Secondo il ricercatore Dott. Johannes Zimmermann, invece, la tendenza ad usare un pronome piuttosto che un altro potrebbe indicare altro.

Senza entrare nei dettagli della ricerca del Dott.Zimmermann, dalla stessa è emerso che quando le persone parlano di alcuni argomenti (soprattutto quelli tristi) tendono a fare frequente utilizzo di pronomi in prima persona singolare. Da ciò è stato ipotizzata una relazione fra utilizzo di questo tipo di pronomi e presenza di sintomi legati a disturbi dell’umore. Per una conferma, hanno ulteriormente approfondito con altre tecniche e i risultati hanno confermato l’ipotesi di partenza, cioè che le persone che hanno un punteggio più alto sulle scale della depressione (e che quindi si suppone abbiano un disturbo dell’umore) sono inclini ad utilizzare il pronome “io” in prima persona singolare e meno propensi ad utilizzare pronomi plurali e di inclusione.

Una conferma, in sostanza, potremmo dire. Sentire qualcuno continua a dire “io …io…io” fa scattare  in tutti un riflesso condizionato di attenzione, anche se, non raramente, l’aumento di chi ne fa spudoratamente uso sta portando, non tanto all’assuefazione da parte degli altri, ma innesca una vera e propria rivalsa generando nell’interlocutore la voglia e il desiderio di dire “…e allora anch’io…“, scatenando l’inferno.

Secondo i ricercatori questa tendenza sarebbe una sorta di segnale, di richiamo dell’attenzione per sentire le persone maggiormente vicine e cercare sicurezze e conferme.

Interessante è anche un altro aspetto. Dalle ricerche emerge che non vi sia una grande differenza di risultato finale tra l’uso parlato oppure lo scritto. Altro aspetto ancora, non indifferente ed anche questo ben noto, è che un uso di tale linguaggio nasconde una forte dose di narcisismo.

Tali tipologie di soggetti sono, soprattutto all’inizio, tra i più simpatici, persone socievoli, conversatori e anche dalla personalità affascinante.
Il tempo poi rivela il tutto e cominciano a risultare alquanto pesanti: parlano molto e quasi sempre di se stesse, raccontando sempre le stesse storie. Hanno anche l’abitudine di intervenire su qualsiasi argomento, ma, soprattutto, per non essere esclusi, su quelli nei quali non ne sanno nulla: e in pochi hanno il coraggio di impedirglielo. Non raramente puntano i difetti altrui, ma solo per risaltare e far emergere se stessi.

Non sono vere e proprie conversazioni, sono monologhi.
Queste caratteristiche sono riportate spesso anche nei social nei quali tali soggetti “prendono la parola” tra i commenti e parlano di se, di cosa hanno fatto, di come lo hanno fatto, di cosa gli è accaduto, di come hanno gestito, ecc., ecc. indipendentemente dall’oggetto principale della conversazione o dalla opportunità di un confronto costruttivo: sono delle deposizioni.
In effetti sono delle deposizioni che loro intendono consegnare, ma sono anche delle deposizioni in termini di confessione: si palesa bene cosa e come sono.

Una persona che parla molto di sé è, di fatto e in sostanza, incapace di stabilire un limite definito tra se stessa e l’ambiente che lo circonda.
La sua personalità narcisista, la voglia di emergere, di mettersi in evidenza, di porre in risalto la sua personalità, ecc. (caratteristiche molto, molto presenti in liberi professionisti che pensano di adottarla anche come strumento “pubblicitario” per decantare la loro bravura) le impedisce di prendere in considerazione l’idea che il centro dell’universo non è depositato nella loro struttura fisica e proprio l’assenza di consapevolezza gli fa credere che sia normale che tutte le conversazioni gli ruotino (magari è solo labirintite).
Qualsiasi indirizzo diverso del dialogo/conversazione che non sia in questo senso, porta tali soggetti a considerare che il problema sia degli altri, non suo.

Ovvio (è possibile verificare in qualsiasi documento o trattato sul tema e, ritengo, essere cosa ben nota a tutti) che si tratti di eccessivo bisogno di attenzioni che nasce da una grande insicurezza nutrita inconsapevolmente.
La ricerca della gratifica arriva se gli altri prestano loro attenzione di continuo, considerando questo come riprova del loro valore.
Non riescono ad entrare in sintonia con i desideri altrui, non fanno altro che pensare esclusivamente alle proprie necessità anche quando si buttano a risolvere qualche situazione altrui.
Su questa leva, tra l’altro, come trattato anche in altri interventi nel blog, operano anche i noti “like” dei social, tanto che Instagram ha ritenuto opportuno rimuoverli (seppur non per motivi di tutela della salute degli utenti).

Il dialogo, parlare con gli altri, ma vale anche lo scritto, dovrebbe essere un modo per distrarsi dal dialogo interno che ciascuno di noi sostiene con se stesso.
Ecco, invece, tali soggetti, non vogliono ascoltarsi, non vogliono neanche leggersi, infatti non riflettono neanche all’atto della scrittura, che già ha qualche secondo in più di potenziale riflessione rispetto al parlato. Vogliono solo essere ascoltati, non intendono esprimere idee o parole di valore o apportare valori, ma devono evitare di incontrare se stessi.

Occorre fare attenzione, però, al contenuto delle conversazioni (o dello scritto).
C’è chi diffonde la “lista delle loro pene, non chiedendo aiuto e non accettando consigli, ma chiedendo “solo” rispetto e attenzione nei loro confronti (li definisco “i ricercatori dello sfogatoio perduto”).
C’è chi opera al contrario e diffonde la “lista delle loro gesta, come documentazione inoppugnabile di quanto siano meravigliosi. E’ come una descrizione di una loro prestazione ad un gioco della Play Station: mille avventure quotidiane e sempre più livelli conquistati. La loro attesa/premio finale è: un commento sbalordito da parte di chi ascolta.
C’è, infine, chi diffonde la “lista delle richieste nascoste, esprimendo i loro problemi per ottenere un orientamento dal suo interlocutore, in stile terapista privato gratuito. Di norma, a tali soggetti, non interessano gli interlocutori, non domandano neanche “come va?“: obbligo ascoltarli, ancora meglio consigliarli.

Non tutti credono a quello che sto per scrivere, ma queste modalità, se non opportunamente “stroncate”, oltre a non essere frutto di uno scambio “puro e genuino”, costituiscono un meccanismo di manipolazione facendo diventare i loro interlocutori parte di una sorta di gioco, nel quale portano l’interlocutore a sentirsi in obbligo di di partecipare, ascoltare, a elogiare o (anche) a compatire. Il tutto completamente opposto a qualsiasi concetto di autenticità.

Soluzione? No, non disponibile a moltissimi “comuni mortali”, occorre il medico.
Tentativo di soluzione? Si, ma è tentativo.
Il tentativo consiste nello spiegare in modo diretto, inizialmente delicato, la positività di conversazioni a reciproca interazione tra chi dialoga, si parla e si ascolta. Altra soluzione, l’invito a trattare altri argomenti.
Risultato certo? No. Anzi, spesso si ribalta contro, quindi occorre essere pronti al confronto, e spesso non è possibile neanche interrompere completamente i rapporti, anche perchè, talvolta, in fase successiva, tali soggetti si ripresentano nella forma originaria: simpaticoni.
Opportuno, però, delineare bene i confini “operativi” e non porsi problemi per allontanamenti definitivi.

Una precisazione per la conclusione è obbligo.
Occorre sempre e sempre e sempre e sempre ancora, considerare il contesto quando si cerca di applicare una categoria psicologica o effettuarne una analisi (anche se non professionale) rapportandola alla realtà, cioè, alle persone che ci circondano.
Esempio, se una persona ascolta con le braccia conserte, non significa assolutamente che sia in un qualche modo “chiuso” (come leggenda racconta), ma tale postura necessita di essere, appunto, contestualizzata o, al massimo, può costituire oggetto di indizio da porre in coerenza con altri. Ecco, allo stesso modo, se “nel corso della vita” qualcuno sente pronunciare la parola “io”, occorre evitare di pensare che tale persona sia depressa, ma, quando quella parola “io” inizia a moltiplicarsi e a “farsi sentire” e “farsi insistente”, allora non scarterei l’ipotesi di iniziare allontanamenti, soprattutto quando il tutto è accompagnato da una delle liste sopra descritte.

Diceva François de La Rochefoucauld (Massime, 1678) “Si preferisce parlar male di sé stessi piuttosto che non parlarne affatto“.
Riprendendo questo aforisma, modificherei in “Si preferisce far brutte figure parlando, piuttosto di non parlare affatto” (e vale anche per lo scritto).

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